(di G. Forcesi - tratto da NEAR, n.1 2012)
Incontro Porpora
Marcasciano in una pausa del recente convegno romano indetto dall’Unar
“Contrasto della discriminazione basata sull’orientamento sessuale e
l’identità di genere”. Un convegno nel quale l’Italia ha reso pubblica
l’adesione al programma che, su questo tema, il Consiglio d’Europa ha
votato nel 2010.
Porpora veste semplicemente, senza trucco. Un
viso attento, che sorride. Un’età tra i 50 e i 60. È laureata in
sociologia. Ha origini meridionali, ma è approdata a Bologna, dove ha
seguito la nascita, trent’anni fa, del Mit, il Movimento Identità
Transessuale, la più rilevante realtà del transessualismo italiano, e lo
ha attraversato per tutta la sua storia, divenendone, poco più di un
anno fa, la presidente. In questa veste è al convegno romano.
Per
quasi tutti gli anni 70, Porpora ha frequentato l’ambiente gay, fino a
fondare, con altri, il Collettivo Narciso, che in seguito divenne il
Circolo M. Mieli (nel 1977 Mario Mieli aveva pubblicato un’opera
decisiva, Elementi di critica omosessuale). “Per noi trans la parola
d’ordine in quegli anni – dice Porpora – era resistenza”. In
applicazione di una norma che vietava “il disturbo dell’ordine
pubblico”, i trans erano continuamente perseguitati e portati in
questura. Le manifestazioni di protesta portarono all’approvazione della
legge 164, nel 1982, che riconosceva l’identità transessuale e
consentiva di cambiare sesso.
Quando Porpora entra nel Mit, nel
1979, il movimento si chiamava Movimento Italiano Transessuali (nome che
mantenne fino al 1999). Il Mit ebbe un ruolo importante nella conquista
della legge 164 e nell’affermazione dei diritti e della dignità delle
persone trans.
Vi furono convegni nazionali a Milano, a Treviso e a
Roma. Ma è in Emilia Romagna, a Bologna, che il Mit mette radici in modo
più solido. Nel 1988 ne diventa presidente Marcella Di Folco, che lo
rifonda e dà nuovo impulso alle sue attività. La Di Folco sarà la leader
nazionale del Movimento fino alla sua morte, nel 2010, quando Porpora
prenderà il suo posto. A Bologna Marcella Di Folco divenne anche
consigliera, prima circoscrizionale e poi comunale.
Il primo Consultorio autogestito per trans in Europa. Ora convenzionato con la Asl
Il
primo risultato significativo del lavoro svolto a Bologna è la nascita
del Consultorio nel 1994. La Regione diede un finanziamento e il comune
concesse una sede. In Italia esisteva già un consultorio per
transessuali, a Roma, all’Ospedale San Camillo, ma quello di Bologna è
stato il primo e unico consultorio per la salute dei transessuali
gestito direttamente da un’associazione. Non solo in Italia ma in
Europa.
Il benessere psico-emotivo delle persone transessuali è
cruciale per la loro vita, e il percorso di cambiamento di una persona
transessuale è qualcosa di molto lungo e complesso. Non si tratta di un
percorso obbligato, perché non per tutti l’iter è lo stesso, e non
tutti, poi, sentono come necessaria la strada dell’intervento
chirurgico. Ma il “transito” verso l’identità che si sente come propria è
comunque una fase della vita a cui va prestata una attenzione molto
accurata. La persona vive un disagio profondo col proprio corpo e col
suo ruolo nella società. Deve affrontare quello che si chiama il “test
di vita reale”: all’inizio della terapia ormonale, comincia a vivere nel
mondo come persona del sesso a cui sente di appartenere, adottando
l’abbigliamento e i comportamenti, persino le espressioni, del genere
che ha scelto. E ha bisogno di essere accompagnata, di potersi
confrontare con qualcuno che sa ascoltare.
Il consultorio del Mit
ha un carico di 650 utenti. Vi lavorano tre psicoterapeuti e un
endocrinologo. Vi sono due gruppi di auto aiuto, uno per il passaggio da
femmina a maschio e uno per il passaggio inverso. Vi si fanno 50
colloqui alla settimana. Le persone vengono da tutta l’Emilia e anche
dalle regioni vicine. Dal 1998 il consultorio fa parte dell’ONIG,
l’Osservatorio Nazionale Identità di Genere. E, da qualche tempo, per
gli alti standard di qualità, medici e organizzativi, che ha raggiunto, è
una struttura convenzionata con l’Unità sanitaria locale.
Poter cambiare sesso non basta. Mancano tanti diritti
Ma
i trans vivono non solo il disagio del cambiamento di identità. Hanno
problemi di emarginazione sociale e difficoltà per poter lavorare. Per
questo il Mit si è battuto perché nascesse, nel 1997, lo “Sportello
Nuovi Diritti Cgil”, attivo tuttora. Dicono al Mit, schematizzando un
po’, che il 30 per cento dei trans si prostituisce, il 30% lavora, il
40% è disoccupato. Chiedo a Porpora di capire meglio. Cominciando dalla
prostituzione. C’è una connessione, di tipo psicologico, tra la
condizione trans e il prostituirsi? Porpora mi risponde che non c’è
nessuna connessione. E’ una scelta (fatta solo dalle trans che passano
dall’identità maschile a quella femminile) che nasce dalla difficoltà a
inserirsi nel mondo del lavoro. Per le trans la possibilità di lavorare è
quasi soltanto nell’attività autonoma: lavorano, per lo più, come
estetiste o parrucchiere. È anche vero che il livello di istruzione,
soprattutto per le persone trans del Sud, è piuttosto basso, perché già
in ambito scolastico si verificano situazioni di derisione e di
esclusione che spingono, in molti casi, ad abbandonare gli studi. Il
Mit, grazie ai molti progetti europei che ha portato avanti negli ultimi
anni (quattro progetti come capofila e 23 come partner), ha dato lavoro
a un buon numero di trans.
Che fare per sostenere il diritto al
lavoro dei trans? Porpora dice che per quanto riguarda l’accesso si può
fare poco. È assai difficile poter dimostrare che una assunzione sia
stata negata – come invece di fatto molto spesso avviene – a causa del
fatto che la persona è (visibilmente) un trans. Qualcosa, anche se non
molto, si riesce a fare per tutelare chi un lavoro già ce l’ha, chi,
quando affronta il periodo del “transito”, viene schernito, subisce il
mobbing, oppure viene licenziato. Ma è comunque sempre difficile
dimostrare che il licenziamento è dovuto alla transessualità.
Il
Mit ha messo in piedi anche molte altre attività concrete per ridurre
l’emarginazione dei trans. Per esempio ha avviato, con il Comune, un
intervento di riduzione del danno per tutta la realtà della
prostituzione, in strada e in appartamento. Ha avviato un percorso
protetto per le persone sottratte alla tratta. Ha aperto tre
miniappartamenti per abitazione temporanea di trans in difficoltà:
attualmente gli ospiti sono una persona uscita dal carcere, una
palestinese priva di permesso di soggiorno, e una venuta via da un
ospedale psichiatrico giudiziario. Ultimamente è stata aperta anche una
casa-alloggio per persone straniere vittime di sfruttamento o di tratta.
A Bologna il Festival cinematografico del Mit è il più seguito di tutti
E
poi c’è un importante lavoro culturale, di informazione, di studio, di
creazione artistica. Il Mit ha messo in piedi un Centro di
documentazione, con una biblioteca e un archivio di materiale video,
fotografico e cartaceo, con l’obiettivo di raccogliere e diffondere la
cultura e l’immagine trans. Porpora è particolarmente fiera del Festival
internazionale del cinema trans. Nato nel 2008, quest’anno è alla sua
quinta rassegna. Il festival porta il nome “DIVErGenti” ed è sostenuto
dall’Unar. E’ la rassegna cinematografica più seguita dai bolognesi.
Le
chiedo quali sono gli obiettivi dei prossimi anni per il Mit. Mi dice
che, di nuovo con il sostegno dell’Unar, il Mit sta cercando di
diffondere in altre città italiane realtà come il consultorio e lo
sportello per i diritti. E una rete sta nascendo. Cita Napoli, Torino,
Verona, Roma, Torre del Lago in Toscana.
In ultimo le chiedo quali
sono i temi culturali più cruciali su cui è impegnato il Mit in questi
anni. Porpora accenna al dibattito scientifico in corso oggi sul
significato da attribuire al transessualismo, e dice che, per adesso, il
transessualismo è collocato all’interno del DSM4, cioè la quarta
versione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders.
Dunque, è considerato un disturbo mentale. Il festival del cinema
“Divergenti 2011” ha ruotato proprio intorno all’interrogativo: il
transessualismo è una patologia oppure un’esperienza umana
significativa? “ E tu – le chiedo – che cosa pensi? Mi guarda, sorride, e
dice: “Io penso che sia un’esperienza umana significativa.
Un’esperienza umana molto importante”.